vivi

viene il sole
la sera come una sorpresa.
la pioggia del giorno
ha cancellato tutte le impronte.
alla luce son uscito
per farne delle altre.
a questo il sole serve:
per dirci una buona volta
che siamo vivi.

svilisce

c’è un segreto nel lago
il lago è qui vicino

artificiale e vitale
oche papere germani
e i cigni le tartarughe
e le carpe affamate
grandi come cristiani.

mangiano tutto
grandi quantità di pane:
i bambini non sanno
nei giochi e nelle risa
nella brama di vivere

che i pesci e gli uccelli
non si fermano mai
continuano a riempirsi
come mongolfiere
che però non saliranno

in basso lentamente
s’adageranno nella melma
densa -buio d’acqua
stagnante.

la vita che svilisce
non è quel segreto.
oppure.

lacci

correggere la mira
non so e slacciare
certi lacci. maldestro
il capitolato dei fatti.
l’allunaggio imperfetto
l’impronta importante
se la polvere vuole.
se il tempo consente.

il gatto ed il topo

un topo grosso
schifoso e sozzo
grigio nel sottoscala
aveva la tana
in un sacco nero di plastica.
una lunga coda
spessa come una fune.
il gatto era sempre lì
controllava ed aspettava
sul terreno nei pressi
come una sfinge
attento. non sapevo
e scacciavo il gatto
rabbioso io
famelico lui.
m’aveva pisciato
sulla porta di casa
maleducato felino bastardo.
la solita storia
con umana variante
del gatto vivo e del topo
morto.

anima

tenace e vispo il merlo
attende che m’eclissi
dietro le tende. finestra
spalancata oggi e lui
lavora di buona lena.
afferra col becco
la sua futura casa.
la mia è fatta ed è
l’idea che fantastica
si perde nell’atmosfera
goccia e risale dalla grondaia
una verità s’inscena:
è questo che si cerca
che si brama: serenità.
dell’anima.

mi piaceva

mi piaceva un tempo
guardar fuori sereno
il merlo raccogliere cose
il gatto seguirlo quatto
il vicino abbandonare la moglie.
mi piaceva perché
sapevo di poter interferire
seppur minimamente nel mondo
darmi arie da saggio.
ora sono come una talpa
che ogni tanto fa capolino:
vede il mondo dal basso
e torna indietro d’un passo.
me la prenderò col sole
e tirerò giù le nuvole
farò del mio fazzoletto di terra
l’infinito cielo.

tutto

tutto lo sforzo
tutto il sudore
cadranno liquidati
nell’acquazzone
e candidi addii
riceveranno l’appello
che si meritano.
il sereno è sempre un tratto
di buio. la tenebra
la giusta risultante
d’ogni big-bang:
farsene una regione
come libertà nella prigione.

il sentimento

il sentimento tesse
caverne e stracci di cielo
mentre il mio cazzo
che si scava la fossa
nella tua umida carne
è una scommessa
con la morte: la voglia
supererà l’imbroglio
d’eterno malinteso
s’inarcherà per dar forma
a quel sottinteso longevo
di vitalità e amenità
anche di gioco di mano.
eppure vincerà già sai
la naturale compostazione.
poi sarai foglia turgida
o fiore rosso sgualcito
in altra vita veggente
oppure silenzio cosmico
e raggi di stelle nane.

potere assoluto

la fica ha il suo potere
assoluto. attrae come giove
dove l’io maschio diviene
impercettibile e bavoso.
e tuttavia la vera potenza
di questa infusione d’effusioni
liquide è definitivo e tombale:
la piangente vita nova 
prova dolore nel parto 
per prima cosa…

calamaio

siedono al vento di un colonnato barocco
le mie scarnificate parole. non ho nemmeno
tentato il mare aperto -i sensi si dipanano
lenti come nero inchiostro d’un versato calamaio.

che malore

che malore ogni mattina
specchiarsi il viso.
è una nausea inattesa
eppure oltremodo
ripresa e ripresa
come ogni teatrante
di fronte ad una cinepresa.
il regista registrerà l’infamia
di un’esistenza rappresa.
e allacciarsi le scarpe
uno schiaffo alla vita.
un dito in culo 
la reiterazione di sé.

i rami

i rami dell’albero
in un grande abbraccio
penetrano nel cielo.
pochi uomini e poche auto.
si muove nessuno
altri spiano dalle finestre
nel sole d’aprile.
i cani accompagnano i pochi
dietro isolati ritagli di verde.
impossibile distrarsi
col suono d’uccelli.
luce che trafora.

non vi amo

non vi amo
non vi voglio
e voi non sapete
di me. niente.
eppure tentate
fantasticate.
belate nelle feste
a comando.
vi celebrate
con la falsità
che vi compete:
dev’essere l’edonismo
il nuovo eroismo
che spela solo le mani
a farci sembrare indagatori
delatori del partito sorpreso
dell’acqua fritta.
è un incubo
questa incauta
posticcia empatia.
non vi amo.
non vi amo.

il silenzio

il silenzio dei pianeti
dei muri grezzi di cemento.
il progresso è una lastra
di calcestruzzo che sgretola
e crepa. in fondo alla crepa
un buio immorale: c’è da piangere
o ridere schizzati a guardare
strade morte e palazzi osceni
la città disfarsi come
gomma da masticare.

eroi

campi arsi dal sole
erba bruciata
asfalto rovente
che crea castelli in aria
finti come botulino
come un sorriso vip.
campi decimati dal profitto
e tante tante case sfitte
uomini che vagano
sotto i ponti: siamo stati
fascisti eppoi comunisti
eppoi liberisti ma sempre
dalla parte sbagliata
perché il potere ci logora ancora
e una volta ancora
acquistati a saldo
senza l’etica necessaria
per scavare la verità.
io non t’ho chiesto
di interessartene
e non farò l’eroe:
vivrò nella corteccia
nell’intonaco
come quegli insetti
piatti che schiaccio nei vespri
per passatempo.

freddo dentro

c’è il freddo dentro
quando vedo il corpo
d’uomini obliterati
operai del sudore
candidati all’obitorio
col movimento sussultorio
dell’incessante produzione.
ho visto mio padre
un tronchetto giallo sul letto
a sessant’anni suonati
la merda nel pannolone
lo aiutavo ad infilare l’uccello
striminzito nel pappagallo.
piscia gialla
come una nauseante
bibita gassata
per consumati felici e ruspanti.
aveva soddisfatto ogni desiderio
a parte il tempo.
quello all’ultimo miglio gli è mancato. 

la luna reclusa

vedo la luna sottile come la cruna
io son ago e un mago perché
nel ventunesimo voglio scriverne
ancora come un romantico
di sentimento ricco aromatico.
improvvisamente mi sveglio
e son sempre quello civico
ma senza il satellite che tornato in cielo
resta a digiuno per uno scambio:
la persona illusa restò chiusa
non vide mai la luce riflessa e diffusa.

il giorno è un animale

il giorno è un animale sociale
che si scioglie sotto al sole
d’estate. al mio posto
qualche riga d’anagrafe
forse un giorno una pensione.
un fascicolo d’analisi
due timbri una previsione
attualissima d’oblio.
si preannuncia distanziamento
ulteriore: stringe ancora le maglie
della rugginosa catena.

mio padre tornava

mio padre tornava alle 17 e 30
l’aspettavo sulla terrazza
intravedevo la golf gti nera
110 cavalli abbondanti
800 kg di peso, una bella
ripresa. immediato riconoscevo
il rombo sordo del motore.
era il rito sacro ogni sera.
ricordo d’esser stato sereno
allora perfino felice.

*

più invecchia
e meno parole usa
non che ne usasse tante a venti
è che ora toccano poche corde
a volte una sola
si tende all`essenziale
coll`età
e mentre fuori
gli spazzini
proseguono il loro incessante lavoro
anche egli separa e colleziona
oggetti persi per strada
e mette l`umido da parte
non si sa mai
domani
potrebbe esserci un caldo terribile.

limo

il tempo è un paravento
sonnolento. è un destro
al vento. il lavorio industrioso
che spezza le reni
spazza peccati e fulgori
piega i rami come una neve
pesante d’acqua risacca.
è tutto il mare che sa
di diventare nuvola.
e prima che se ne renda
un ricordo. come il limo
lungo il nilo: sedimentarsi
e disapparire. evaporando
come lenire.

troppe le parole

le strade tortuose
son le più virtuose
mentre tutte le finestre
son chiuse al di qua della notte
primavera che colora
di quei caldi pastelli
già silenzio alle nove
m’ammutolisce
senza direttrice.
nemmeno fortuito
men che meno eroico:
realtà stoica
logorroici noi.

repubblichini

cerca la coesione in una data il popolo
e una vera derisione per sua decisione
ossessione scarna del diritto,
più possessione interessata dell’istituzione:
che bruci per finzione, come in televisione
al popolo piace il teatro, ne venga dato
sempre per senso dello stato, ne sarà agevolato.

appari

tu che appari fra i cirri nebulosi
nelle creste di luce
nel rosso saturo di sera
nella vampa mattutina
nei silenzi alti delle nuvole
nelle pause tra i cieli azzurri
il calar del sole
nelle albe nei tramonti
nei borghi millenari
nei muretti medievali
nelle fruste del potere
che plasma il cittadino
dal primo mattino
tu che non pronunci
la parola uomo. tu.

la piccola luce

sta sulla terrazza a fumare una sigaretta
la donna
davanti a sé un altro condominio
piovono gocce finissime
non c’è mare né montagna
c’è il cielo scuro
auto che sanno di benzina ferma
cade la sigaretta ancora accesa
la sua piccola brace
la piccola luce
disegna una linea retta come un neon
pennellata d’arte concettuale
il cemento l’asfalto 
macchie d’olio su strada umida
lo spirito è libero
la carne aggrappata tenacemente
alle cose.

*

i primi piani nostri
son scomposti: armano
di luce propria sol
nello scambio. oppure
crescono come il batterio
ma nella mancanza
del particolato. è
la crescita che ci frega.
troppo soffermarsi
sul particolare: ululare
alla luna, terrorizzati.

innovazioni

rifiutavano tutto
il giusto e lo sbagliato
resistevano con emozioni
stralunate e feroci.
morirono di sé per gli altri
o un modello fantascientifico
fottutamente inapplicabile.
oggi s’atteggiano a ricchi
ma sono ancora poveri
(almeno di spirito -sotto spirito)
e guidano il macchinone
e viaggiano ad agosto
o ogni fine settimana
con un pieno di verde
o metano o gas o ipocrisia
finché non verrà imposto il green
grandi denti verdi (ancora!) di noia.
con la virulenta quarantena
non hanno neppure più la vergogna.
oggi s’incatenano al posto
di lavoro. ditegli che chi è libero
non ha solario e né solaio.
anzi non dite niente
nessuno v’ascolterebbe.
inebetiti postulati
emancipati al contrario.

quando quando

quando tornerà il sereno
fammi uno schizzo
e precisami quale resa
ha il sapore del giubilo
o d’un timido inzuppare.
hai decentrato la storia
su più di un binario
e la luce sa di risorgimento.
l’interiore è come a volte
una stanca paranoia
che non fa che ripetersi
su un tessuto sintetico –
macchia che visibile poi
scivola e non rimpiange
cure e adulazioni.

pecorelle smarrite

è tornato il gufo era stufo
d’imbucarsi come un ufo
sparuto ma non abbattuto
e non al chiuso: nella notte
intermittente nell’idioma
sconosciuto dice alla gente
io lo sento vero ed intenso
sapendolo saggio e astuto:
tornerete il mattino
-un giorno assolato- 
liberi come le pecore
a pascolare

figlio di

la puttana ha lo sguardo
di pietra. insolente ed infeltrita
sa cos’è la vita. la vita è una pianta
da interno dimenticata sul balcone.
non è stata seguita, la padrona
non aveva il pollice verde
la padrona era svogliata. negligente.
la puttana fa fruttare quella cosina là
al caldo e all’umido tra le gambe.
per quella gli uomini si sono rovinati
hanno serrato le tapparelle
hanno dimenticato fegati e stampelle
hanno smesso o hanno riso per sempre.
lei sa. e tu invece non sai un cazzo.

escamotage

gli uomini son pesi mortali
fluttuano come anime
di carne -obesi e flebili.
i giochi del bambino
vengono a galla quando
il viso è occupato da rughe
e redenzione. il latte versato
è nullo di fronte al tempo
le caricature su cui s’è vissuto.
accedono forse al regno dei cieli
dimentichi d’altari ed escamotage.

per mano

ci separano per farci sentire
più liberi. liberi di consumare
ed allontanarci sempre più
affranti e sviliti -operai e
lottatori antichi. ora vi pestano
e voi non sapete che rispondere
il modo ed il contenuto.
non sapete cosa cantare
e già non volete tempo
per un libro. come affrontate
l’assurdo e l’assunto
sapreste d’esser vivi
se non vi prendessero
per mano?

al figlio

parole poche. punteggiatura
assente e sguardo aspro.
la sintesi e la brevità
tutto il succo in righe minute..
non vergognarti e trascendi
se capita offendi e sentiti grato
di quel ficcante sguardo.
la nuda parola azzanna.
non farti abbindolare
dal buon gusto e dai santoni
dai baroni e dai coglioni.
non demordere e accenna.
questo direi a te -figlio mio
se per caso bastardo
ti venisse di figliare versi.

mare e montagne

ho il mare dentro e le montagne
fioriscono lì dentro un inferno
di fiori. nascono e muoiono
come un gioco. petali e foglie
frutti e radici. son tutti in serra
protetti e perfetti. sono miei.
non li dividerò con nessuno.

rami sghembi

rami sghembi di melograno
con boccioli. pettirosso e gatto.
il cane randagio salta il fosso
io guardo e penso. il giorno
passa con le nuvole lento lento
bianche come latte alcune
attenuano il sole e vanno.
dove? non so. mai capito
dove finisce il reale
ed incomincia il creare.

il vino nei giorni grigi

i baci hanno assunto
il valore della distanza
sono netti ma freddi
niente saliva
niente tepore di carne
niente lingua
i giovani saranno in difficoltà
e avranno ragione
tutta la ragione del mondo
a resistere ed infrangere
le regole ridicole
e gli amici rinchiusi
in appartamenti claustrofobici
a 5-600 euro al mese in nero
andranno a comprare
una birretta dal paki
sempre aperto
alimentari essenziali
e anche il vino
chi lo dice che il vino
è un bene superfluo
il vino aiuterà i blasfemi
ad avanzare nella palude silenziosa
come guerrieri senza fucile.

tempi ultramoderni

le fabbriche sono chiuse
ma le riapriranno
i cervelli erano già chiusi
non li riapriranno

i giardini sono aperti
ma non li vive nessuno
mi ritiro in bagno
e vado di mano

immagino l’inimmaginabile
e mi sento meglio
mi sento svuotato

più carne e meno idee
mi sento un cittadino
che non è un modello

i cittadini modello fanno media
hanno paura di tutto
e la media è così bassa
che io mi sento un genio

il genio è visionario
il genio è un paraculo
e non salverà le vostre coscienze
sporche e nemmeno il paesaggio

riapriranno le fabbriche
e i giardini
le menti no.

non siamo della stessa pasta
io e voi.
non ho conosciuto guerre
la nostra carestia
ce la portiamo dentro.

sul divano

sul divano comprendi
dove finisce lo sguardo
e dove incomincia la creazione.
steso come un’ameba
in comodato d’uso
accarezzo il cielo
con un pensiero plastico
elastico s’innamora.
non c’è nulla di così compiacente
come la stasi per capire
che in movimento
una forma precisa non s’acquista
che se tu non vai alla montagna
ti puoi accorgere della diga
che frena. eppoi
il giorno nuovo
è uno spiraglio di luce ghiacciata
e ti tende la mano.
è tutto un ventaglio
di possibilità remote.
non si intorbidisce mai il pensiero.
t’incateneranno ad un lavoro
ad una noia un destino.
ma il pensiero veleggerà
si librerà immanente e assoluto
vento brezza inazione e volume.
libertà di quel barlume.

ammmore

per anni l`amore
è stato a pagamento:
un tormento
per poche ore al mese
tutto sommato
anche le spese
ridotto all’osso
del primordiale
l`amore decantato
è stato cantato
romanticamente
più che piacere-
un dovere.
at-ten-ti!

demos

rabbiosi e cancerosi
aliti di follia dittatoriale
sfuggono nell’atmosfera rattrappita
dei nuovi generali dell’aria
e dei terreni. vogano
fermi in oscuri luoghi
non si vergognano della rabbia
sbranano il prossimo
lobotomizzato da uno stato
improvvisamente nautico
e sperequato. sempre pensato
che la demos nascondesse
nelle sue pieghe di carne
il demonio. che l’attico
fosse usato per riti satanici.
e che i moti rivoluzionari
portano a niente. al nulla cosmico.
delatori infami alle finestre
scrivono una fiaba col sangue
una tiritera di patologica gomma
tiriamo testate lì
pensando che sarà un bene
l’ematoma in bella mostra di sé
come prova provata dell’affezione
al pubblico e al concitato.
il tic delle masse una delazione
l’ultimo atto della specie
una deiezione involontaria.
come i sogni diventano indesiderabili
e la realtà un magma inafferrabile
e non benvoluto.
saremo scalzi e deleteri
alla prova dei fatti.
ci si rivede nel sifone
là in fondo sperduti
e perduti per sempre.
tirare l’acqua grazie.

la grande luna

la grande luna
circola nella notte
come un faro
la nave sperduta
in mezzo al mare
veglia sul mondo
addormentato
come sfondo
come un sogno
o son desto -sveglio
accarezzo i fatti
sfatti nella memoria.
s’assottiglia così
l’infanzia prima
eppoi la vita
in tanti sfracellati
torrenti che seccano.
e allora rotola la luna
grande e rossastra
come un ematoma
gli angoli trafiggono
e sputano sangue
capillari di ragno.
è natura matrigna
stagione aspra.

bang

fui una strada di ghiaccio
e accarezzai animali
impagliati con limatura
di ferro. estrassi il dente
ma odiai il giudizio
degli altri. fui cavallo
e troia assieme abbracciati
in un ballo fetale. grande
abbastanza per soffrire
nella luce. stridente
e muto. lasco e
temerario. e allora
meglio essere niente
soffocato nel buio
dell’universo e poltrire
eterno nel bagno a secco
d’un big bang novello.
purché casereccio
fatto d’artigianato glorioso
opera millenaria.
purché ardimentoso
purché valga.

arrovello

nel collasso
si vince e si ritorce
la luce guida
ad una vittoria certa.
infine le camuffate
pretese a lungo termine
verranno recise:
per inciso l’eterno
batte il ferro
ove il dente duole.
e così a ricredersi
c’è sempre il tempo
dell’arrovello.
sempre quello
che ci nasconde mano.

tutte le strade portano

non dimentico dei passeri le zampe
orme sulla neve che non c’è.
e quando il gioco è duro
allora s’ammansisce il servilismo
già sfrenato. e le gocce gelate
del mattino risuonano di tocchi
glaciali. un tintinnio che sfrigola
una graticola che spegne e langue.
la sera è come il mattino e viceversa.
il mio suono è cantilenato dal cielo
ed è coperto: sta qui l’inghippo
l’urlo che deve tacere. cammino.

vetro sporco

l’officina plumbea e rumorosa
guardo fuori i liberi uccelli
e i gatti randagi. lucertole
merli. un topo di fogna
con lunga coda dritta
gli occhi rossi, diavolo.
con l’alito condenso
tutto la mia malinconia
sul vetro sporco.
il pane si guadagna
venendo a patti 
con ogni dannato giorno.
e pensare che avrei voluto
essere un artista
o un socialista.
con le tasche buche.

il silenzio non s’addice

il silenzio non s’addice alla parola
e la bocca ricama ialine imperfezioni
di carta che non canta. il silenzio
perfetto delle margherite aliena
il corto raggio degli occhi miopi.
io ci sono e tu ci sei: giochiamo
un po’ sull’erba stretta e tagliente
il profilo tenue tende a scomparire.
certa gente ci guarda appena appena
trafelata. l’errore deve essere nel gesto:
ho le mani piene di terra e gli insetti
mi disegnano sul globo terracqueo.
sono decisamente imperfetto
e grossolano. sono decisamente
rumoroso e vivo. dedicatemi un albero
dedicatemi una forma non risicata.
e che il cielo sia sereno per canto
e contrappunto. per stelo e bocciolo.

poeti spoetati

i poeti o presunti
vivono il loro sogno
fatto di una vita
sopra la media
seta
acqua calda e casa al mare
e grandi dosi di libertà
e verità che elargiscono soavi
anche agli altri profani
che ovviamente non sanno
nulla e non comprendono
e
nel mentre grandi gladiatori
si sfidano d’uranio impoverito
conflitti vacui su commissione
e le masse ascoltano musica di plastica
il ventre molle è una dissipazione
di conoscenza e cultura
gli operai non sono stupidi
e non vi leggono
e anche i barboni
scrivete molto peggio
-forse- di come pensate.

felicitazioni

sono felice abbastanza
se così può dirsi
quando son diverso,
più volte e decisamente
quando sembro aver perso
per non essendo rigido
ed estroverso, confesso.
non credendo in dio
penso solo a quell’io
che il sabato pomeriggio
sente un miraggio
nel week end del non più
operativo operaio:
una fetta di dignitosa
alienata libertà
dal lavoro
qualunque esso sia
purché esso ci sia.
ed il tempo finisce
col finire.

dal 1861

sono sotto casa al caldo
gorgoglia il pattume
è cosa viva, preme.
il pieno delle auto
pochi centimetri
di vita qua e là
benzina esala.
il giardino è una cacata
di gatti e cani. erba secca
qualche fiore sparuto
alle spalle un piscialetto.
par vivo il giallo suo
nel grigiore esposto:
cartacce, erbacce.
il calo demografico
già lo vedi nei corpi:
son più piccini e muti
cacciatori di farfalle
senza le ali
superstiti funamboli.

moscerini

in attesa coi moscerini
che mi volano attorno
e traversano il buio.
con le pagine aperte
nei giorni indecisi
incisi nelle pelli
in fondo agli occhi concisi.
tutto rimane nel fondo
sotto il ghiaccio e la febbre.
resta tutto stramato
ed infagottato nel tempo.
ci s’illude di campi fioriti
ed allusioni campagnole
nelle riunioni dei tanti sé.

aborti

da bimbi imberbi
glabri come vermi
venivamo 4 5 6 volte
efficienti come vincenti
raccogliendo lo smegma
come purulenti idranti sui muri:
eran nostri i vanti derivanti
venir lontano e più degli altri.
e venivamo, venivamo

venivamo senza andare
dilapidando l’unguento vitale
biancastro denso umido
un latte che poi al dire il vero
avrebbero sprecato in tante:
si da così la morte
in maniere contorte

medietà

ai quarant’anni
il mondo in pugno
fisico apposto
lucidità nell’azione
muscoli e cervello:
pia illusione
d’una educata sociale
visione. tenta l’uomo
la megalomania
questa mania di possedersi
e rinverdire a ogni dire
ogni stagione nuova cosa
che non rinnova.
ma sicuramente sfiora.
a quarant’anni come a venti
persuaso e schiavo del mondo
barchetta a remi
dispersa e riversa
in mare alto.

lievito ribelle

a casa non sai stare
mi dici. t’annoi.
costretti ahinoi:
la forza maggiore
della storia ingoia
e pure anche un po’
di sfiga soggioga
statistico e caso gioca.
io no. mi sono
riappropriato del tempo:
imprenditore di me stesso
mi son sfatto da solo:
colazione tardi
un giro nel giardinetto
nei pressi -piccoli passi
di margherite. nel mentre
li vedo
mascherati e passo spedito.
sguardi trafilati da malfidati.
poliziotteschi all’amatriciana
delatori belanti
da guerra fresca. 
un terrore immorale.
io con la palla blu
mezza sgonfia
e mio figlio turbinoso.
pranzo alle due con una fame
ridotta. minima ma presente.
una presenza assenza
nel disfarsi.
gran letture e musica
e un vespro cinofilo
per palati sfranti
o una battuta col vicino
che fuma la stessa sigaretta
da giorni: prende la cicca
butta la cicca. prende la cicca
e butta la cicca.
l’inferno -come dici
e altri il mantra ripetono
come ammorbante litania
non è poi così male.
si sta male con sé
se già non ci si sopportava
da piccoli -orecchi d’asino
idee che non salgono.
il pane al freddo
non lievita.

fanatici

hanno congelato il pensiero
ce lo iniettano come siero
uno a uno, due per tutti
resta fuori uno, calci in culo.
si sapeva che sarebbe stato duro
fare i democratici con ‘sti fanatici.

punto e virgola

del vento la sorpresa
che sbuffa in triste giornata
di gelato sole. solo col mare
nei pensieri e tu che mi cucini
pasta e parmigiano. fuori
il gatto grigio -l’arancione
che s’azzuffano feroci.
e ancora l’albicocca del cielo
nella linea dell’orizzonte sereno.
la pace dei sensi nell’armatura
dell’esperienza. che ci voleva
ad essere eroi. presenti ed assenti
come piuma leggeri e pressanti
dopo ore di calca giunge sera
per mettere un punto. una virgola.
un punto. e un altro. 

terrazze e andazzi

i nuovi boccioli
bulbano raggruppati
in gruppi simmetrici
di scambi pirotecnici.
verdi foglioline
carnose e delicate
verdi manine
dolci e smanicate
giungono al sol dell’avvenir
con discreta pulsione
s’accalcano sui rami
sui tronchi vecchi
bitorzoluti e deformi.
i nuovi boccioli
son la primavera
anima di fuoco
che si spinge in periferia
tra i palazzi brutti
ed i fiori multicolori
sulle terrazze di greve cemento.
i rampicanti giganti
prendono colore
prima scheletri 
tetre ragnatele nere.
mi fanno sentire
io in affanno -vivo.
e pure ancor più schivo.

aprile barile

è aprile e nevica
i pioppi. sfumano
d’aria soffici
come neve mite.
mulinano spumosi
e incendiari a terra
una sigaretta basta
una scintilla a tratti
d’un sole già forzuto
e fermo -scherzi
di fanciulli. eterno
fuoco. è aprile:
ogni goccia
è un barile. di sole!
e bianca spuma
di rinati pioppi.

concerto in solo

ho trovato un topo stasera
in giardino. grigio e grasso
squittiva nel pericolo dell’invasione
umana. la porzione del cervello
primitivo -eretto rettile- mi tratteneva
dal desiderare il suo sacrificio.
alcune cavallette emettevano secchi
suoni di frusta. pareva l’incipit
del concerto in sol di ravel.
le televisioni hanno la dittatura unificata
e le notizie purgate piaceranno
a tutti indistintamente
e questi tutti penseranno
a tutto il bene possibile.
nella stessa tonalità
nell’esterrefatto quadro realista.
mi prude il piede piatto e ho il
vomito del tennista. troppe palle
turbano l’armonia interiore.
troppe balle mettono di buon umore
se si comprende l’ironia esteriore.
non s’aggiunga il pensiero
a questo insano statalismo.
non si stamperà moneta
per tranquillizzarvi e un soldino
non si negherà a nessuno
soprattutto ai morti di fame.
ho la percezione della sconfitta.
andrò a giocare a calcio barilla
sul prato tappezzato di margherite.
ho fame di vita ho fame di ragù
strade vuote. piazze vuote
pensieri fitti e ficcanti
pensieri esausti e mortificati.
quando te ne vai 
prendi anche tutti i tuoi sentimenti.
e non farti più vedere. ok?!
fino alla prossima catastrofe.
o alla prossima finzione.

sciocchi

stupidi coglioni
concorrono al disastro
alle ceneri che irradiano
pochezza e arrendevolezza
fossero tutti pelati

senza un’idea in testa
ma forti nei ricordi
e non avari di pace

e col sole alto sul viso d’operaio
non si segnerebbe un punto
così basso e la malafede.
e pensare che c’è la poesia

non tutta
e la musica di verdi
shostakovich
weinberg
pergolesi 
e
bukowski
fante padre e figlio
e céline.

il sole è

il sole è un pozzo
che non ha fondo
e gli uccelli migrano
nello stesso luogo.
s’inscena una crisi
per lo sfoltimento
è giuro che io
non ho dato consenso.
giuro di non essere
un giuda né in malafede.
né d’aver calpestato
il prossimo mio-
almeno che io sappia:
sono scivolato nevvero
e mi sono impadronito
del mio lavorio.
è che ho bisogno del grano
per fare il pane
e della forza umana
per impastarlo.
e sentirò il rumore
della crosta in un sorriso
o nel silenzio poco
dopo il boccone.