la luce tremola
tra i passi tramuta
smunta delinea
spunta ammanta
sempre un poco meno.
inseguendo seguitando
ci sarà quel black out
che non tutti cercano
ma inevitabile temono.
la poesia non è un museo delle cere e non è un pranzo di gala.
la luce tremola
tra i passi tramuta
smunta delinea
spunta ammanta
sempre un poco meno.
inseguendo seguitando
ci sarà quel black out
che non tutti cercano
ma inevitabile temono.
affascinante come la nausea nasconda
vita. è così strano non vederti più bere
e mangiare come prima. nemmeno una dieta
sconvolge tanto l’anima. naturalmente tutto buono.
in concreto siamo due spiriti liberi
gli spiriti liberi s’ingannano col cielo alle spalle
s’incocciano a metà strada con gl’occhi lucidi
maniglie dell’amore, pancetta, flatulenze…
con la consapevolezza che l’incontro serva sempre
a non sentirci col cuore ammainato, in fiamme
come un’aurora forte, sacra, sciolti gl’ormeggi.
la mia fame sei tu
le tue deliranti: tue note
di rosso e gioia verace,
tua maiolica di viso
rossetto forte
rotonde natiche.
il tuo costume che si toglie
a me come un costume
per gl’altri. chi dice
che siamo
separati in casa?
e se tutti
gl’altri fossi io solo
allora soli basteremmo
ad entrambi.
partorire è questo:
estendere l’infinito
nel corso d’opera.
tu m’hai guardato negli occhi
ed hai cercato.
in fondo alla materia
c’era il concreto, l’abbozzo:
io posso esser rozzo
ma animato di vita
a più non posso.
guarda attraverso il vetro
un parziale, ecco
sono diventati come quella finestra
attori d’ombra, gli amici.
non sono mai serviti
se non all’attesa
attesa di che poi?
di uno squillo, di una battuta
d’una mangiata caciarona.
è che si fa prima a dimenticare
che mangiare: troppo amore invano
nell’ignoranza.
c’è la sensazione del non ritorno
ciò che è passato è passato
un giorno insipido uno salato
c’è la rima, c’è il gatto e manca il topo.
non mi pare d’avere tutto questo amore tra le mani
e non mi salverò certo col lavoro:
mangerò, sopravviverò
dormirò e alla sveglia
potrò guardarmi allo specchio,
come De Niro nella fumeria
sorridermi.
son mercimonio d’apparenze
incongruenze: è sicuro humus
più saturo e sapido, ma è lo strepitio
dei cocci che mi fa sobbalzo.
quindi canto, m’alzo
d’un operaio che sporca le mani
tinge di sudore, col grasso.
anticipando il male
abbiamo dell’impotenza vera
fatto il verso
nella stretta sarà
maledetto anche il resto.
non abbiamo abbastanza respiro
e fiato
per sentirci tutti figli d’una stessa madre.
è che sembriamo
sbagliati sbagliati sbagliati
anche quando siamo nel giusto.
la congettura del sapiens
è la pace col mondo
quando non c’è serenità
nemmeno nei desideri più elementari.
tentiamo una involuzione:
radichiamo il bene
le foglie seguiranno.
un dedalo di stanze spoglie, corridoi
alcune belle donne con lunghe giacche
borse di pelle.
faldoni di carta, polvere sugli infissi anneriti
dagli scarichi delle automobili
una pulizia sommaria
un brusio di fondo, continuo, immutabile.
l’avvocato gli dice
che non è andata benissimo
ha tenuto un tono arrogante
davanti al giudice, rispondendo con sufficienza
alle domande dei legali. lui è la parte offesa,
qualche punto di invalidità
una piccola pensioncina
beone nei fine settimana al pub
qui piccolo uomo nell’ingranaggio
se la passeggia meccanico
per allontanare il tempo immobile.
testa malridotta, frattura d’una vertebra
tutta una serie di malori di stagione.
è ancora vivo, il lavoro non l’ha sopraffatto
e l’incidente l’ha forse reso più attaccato alla vita.
ma ora dobbiamo fare i conti
anche se questa matematica ci è oscura.
noi i processi li abbiamo visti tante volte
in televisione, li hanno fatti e subiti altri
la giustizia non è uguale per tutti.
noi i processi non li vinciamo
mai, né fuori né dentro il palazzo.
o forse sì.
ho la postura dell’innocenza
del coricarsi per necessità
della smagliatura dolce
e del cammino onesto.
la devianza è affascinante
accidentale: con l’acetone
non si curano malanni
si smacchia una serata storta.
incessante il filo,
distrazione
anche. resto vigile
e compongo: punto croce
orlo. nodo saltato
futuro improvvisato:
girandola del tessitore
che non possiede
tessuto.
la pensione s’allontana
così una vecchiaia serena
e dignitosa come una porta
l’apro, esce storta:
la testa sotto
tra ombra e ombra
il corpo sopra
a non far storia
nemmeno memoria.
a volte ci pensiamo cavernicoli
il pensiero è la nostra bestia
una clava. la natura ci fa dubitanti
abitanti, il cervello malvagi:
massacrarci ci rende pensanti.
ci scambiamo i passi
gli allunghi e gli inciampi.
a vederla così
assomigliamo a cani ammaestrati
ma senza un unico padrone: laidi
portatori di statistica.
in realtà
come sempre
nel gorgo
l’atmosfera è più complessa
chiaroscurale-
il grigio non c’appartiene
solo nella vecchiaia.
visto che è meno
di quel che sembra
accende un falò di fede
ed incomprensione.
ci sarà poi un botto
solo perché fra tanti
decimati avrà un senso
tutto suo e d’altri
comunioni, traduzioni
pulsazioni, immunizzazioni.
torno a casa pensandoti
lì ti trovo col tuo pensarmi
nei piatti colmi, cucina.
io ti credo, tu credi in me.
in un pensiero c’è un tutto
che svanisce nel gesto,
mise en scène.
è che tra il dire ed il fare
c’è di mezzo il banale.
vengon le cinque
ed il silenzio delle nubi.
grigio è il colore. è una notte
io mi chiedo.