ci sono rimaste regioni libere
forse sui calanchi dell’Appennino
o in certe coste scostumate
lontano dall’abbaglio del consumo.
dirigiamoci là in comunità
di sole e terra. gli alberi
saranno abbastanza alti
per non coprire la luce
ne vogliamo solo un po’ 
ma non troppi riflessi
ci s’acceca con la vita
e nel sottobosco ci stanno i padroni.

conquisto il marciapiede
tempestato di merda di cane
frammentati stronzi come opere
d’arte moderna nelle piazze
dei comuni illuminati
città d’arte città sfrante.
più in là il tanfo putrido
di un ratto grosso come
un jack russell schiacciato
tra il bidone e l’asfalto.
poi la rotonda e le puttane
felici come veline ma non ballano
fumano impazienti mentre vanno
e vengono le auto degli operai separati.

non abbiamo la terra
e non sappiamo coltivare.
ci sfamano con la televisione
e artefatti cibi confezionati.
aromi artificiali di sapori ancestrali.
facciamo la fila e non ci lamentiamo
ce lo picchiano nel culo ma noi
si vuole far festa e in un giorno
si va avanti e si dimentica.
così tutto torna e si continua
con lo stesso gioco. corre
il criceto. si scuote s’anima
ma sta sempre in gabbia.

dove giocano i bimbi
con le strade e le auto
il traffico e il cemento.
dove trovano le forze
nella giungla di catrame
le nonne parcheggiate
negli ospizi e i padri
in fabbrica e le madri
in ufficio. giocano a nascondino.
un secondo e chiudono gli occhi.
li riaprono e sono già grandi
tra i tanti altri. il lavoro
che toglie l’ossigeno.
e la conformità d’una media.
la riga la tirano i padroni
ed altri che lavorano
nell’ombra.

c’hanno rotto per secoli
i professoroni dalla radio
dalla tv e a scuola
e dal cielo persino
i diritti inalienabili
poi alla prima occasione
l’abbiamo pigliata in culo.
nuova minoranza acclarata
si fanno paragoni con ebrei
negri e omosessuali o zigani.
ma tutti questi ora
ti porgono le manette.
ti guardano dall’alto
sogghignano soddisfatti
da sopra le sbarre
semidei col potere
élite temporanea
come se la storia insegnasse
che non s’impara niente
di intelligente per nulla.

mi stanno sul cazzo un po’
questi giovani poeti
che raschiano il barile dei sentimenti
come fossero eterni adolescenti
sudati ancora dopo l’ultima grassa
masturbazione davanti alla tele
con le puttanelle che piroettano di niente
o i muscolosi aitanti robot depilati.
ora mi è venuto duro e sudato pure a me
adulto monoreddto emancipato
pensatore proletario senza coscienza
scappa fantasia da questa enorme latrina
prima che il dio danaro si faccia scienza.

si fa presto a dire amore
la ragazza non sa
come si fanno le parole
come si conia un abbraccio
ma apre bene le gambe
le hanno detto da piccolina
che si bruciano le tappe
dalle stalle alle stelle
così in una lampo che s’apre.

quale popolo?

un popolo neoprimitivo
usa smartphone
come si usava una clava
hai voglia a renderlo
più umano coi bit
e i circuiti integrati
resterà sempre indietro
resterà incolto. fesso.
resterà arretrato
ipocrita e isolato.
dietro un pallone
dietro al padrone
e alle troie televisive
il popolo neoprimitivo
si fa le pippe di libertà
ma libertà degli altri.
quanto dolore
quanta frustrazione
farne parte
mio malgrado.

mai stato furbo
annotavo i difetti miei
al palo come bandiera.
e la sera rimuginando
pensavo al mancato:
ché quando non si studia
abbastanza s’è impreparati
eppoi bocciati. ma non
da giuria popolare
né voci di corridoi
o quelle di paese:
tutto si sa ma non si trama.

mediocritas

ora vado nel mondo
un mondo freddo
certo

un mondo di esseri
e non esseri
e me ne fotto
e compro e rido

compro oggetti
tutti uguali
illusione di libbbertà
e alimenti

non essenziali:
l’essenziale è invisibile
agli occhi. il passo
prossimo sarà

strapparmi gli occhi
correre sull’argine
di un fiume in piena

ma non inchinarmi
alla demenza
totalitaria.

non so
cosa abbiano fatto
a questa generazione
d’uomini nuovi

non so se sono nati
veramente o hanno
ancora il cordone
ombelicale inserito

una corda nera
che stringe il collo
e fascia le cervella
quella massa grigia

che sta tra le due orecchie
quella massa che non è
più critica.

nell’inverno del 2020
ci chiusero in casa
perché c’era un virus
mortale mai poi isolato

in oriente le persone
cadevano a terra
teleguidate da una sceneggiatura
contro natura

uomini senza spina dorsale
si confinarono sino a data
da destinarsi

felici bebé
papà stato
nonna Oms

una pagina cupa
della democratica dipartita.
anni due dopo
siamo chiusi in casa

non possiamo liberarci
di una delle peggiori
classi politiche della storia
umana e non.

non possiamo
o non vogliamo?
pavidi siamo già stati
servi. tempo al tempo.

non avrai lavoro
perderai la casa
e l’auto

affitterai il frullatore
i vestiti il rasoio il vibratore
l’ascia e la volontà
la camera da letto condivisa
avrai credito quando e dove
il padrone vorrà

e sarai felice
felice assai
di non essere più
un essere umano

settanta anni di pace dei sensi
ed il nuovo homo golem
è pronto per deambulare.

‘sti stronzi di proletari
che son diventati gregari
immobili ninnoli d’un teatro
comprato. c’erano lotte
che son diventate intestini
tubi lunghi che defecano
e latrano metano. tutto
si digerisce e deperisce.
tutto marcisce e la cancrena
è l’unica biologica discordia.
l’unico colpo di reni
prima del tramonto.
e dell’affronto.

ci sono giorni spezzati
nelle labbra d’un muto
e corazze integerrime
che screpolano nella pazienza.
i grandi poeti non aiuteranno
l’operaio stanco la sera.
forse nella notte quando
possono secernere incubi.
la malattia della vita
ha controindicazioni
lampanti. veneree
imprecazioni luccicanti.
e bui. come tunnel
che scavano nella montagna
o nei sifoni infiniti
labirintici della nera città.

non vi amo e non vi ho mai amato
tuttavia vi lascio nel brodo che avete coltivato
nell’ossigeno tarpato che avete esalato
nel sangue coagulato che i vostri canini bramano.
non sono un saggio e né un guru
vi lascio ai vostri cani assetati di falangi
e camicie da strappare come farebbe la polizia
in assetto da guerra. strabuzzate gli occhi
e urlate la vostra addolarata incoscienza
io v’osservo al microscopio elettronico
non vi temo. sono antropologo.

è tempo di lupi
dentro al temporale
si gioca a scomparire
belano le pecore

un coro di rumore
oppure stanno in giardino
fissano la terra
attendono un messia

attendano il nuovo passo:
giocano alla sopravvivenza
è un popolo che sa
come si prende uno stivale.

ho guardato l’immagine mia
deposta sul vetro come pergamena
e non ho avuto dubbi sugli anni
le rughe sono anelli del tronco
che rigira su se stesso. morirò
travolto dal treno o da una sincope
cuore iperteso che s’ascolta silente
come meccanico tornire. e non voglio
pensarti tempo. non saprei che dirti
non saprei dirmi. ti fisso deciso
un po’ sconfitto. tempo m’arrendo.

ho fame ma non posso
nutrirmi. umidi occhi
ma non di pianto. credo
ma so costruirmi le cose
con le mani callose
ma non troppo
con la fantasia che recupera
ma non all’osso: per sé
si crea. per non svanire
nella fabbrica silenziosa
del tempo maestro.

mia madre faceva aghi
su turni. alle quattro
si svegliava e prendeva due bus.
d’inverno è così buio e freddo
nemmeno la cruna. ed il filo
perso nei decenni
della deindustrializzazione.
a milioni gli aghi si sterilizzavano
con radiazioni sotto nel seminterrato.
si diceva che fosse la fabbrica
più fascista di Bologna:
selvatiche caporeparto
capò feroci ti contavano
i peli uno ad uno -un minuto
dopo il turno o una pausa paglia
un po’ più grassa
una lettera di richiamo
anche se facevi più del dovuto
anche se ti facevi gli affari tuoi.
le trovavi in bacheca
fiori di carta straccia
così che tutti potessero vedere
quanto poco leccassi il culo al padrone.

ti tolgono il lavoro
quei due spicci per comprare
il pane e pagare la luce
sereno portando il figlio
al centro sportivo
pensavi alla comunità
come ad una catena solidale
allora vai nel panico
soffri e stringi i pugni in pancia
quando c’è il lavoro è sacro
ed è sempre più difficile.
spietati coi retti e i miti
dissanguano la verità
ma la verità è lama
e affilato acciaio non ossida.

vogliono un padrone
gli uomini di gomma
rimbalzano come palline
di un flipper da sera a mattina
ti dicono amore vecchio amico
quando hanno un minimo di potere
nelle stanze che contano
pieni di furore produttivo
questi uomini e le donne
non da meno e non migliori
nei piani alti dove non si va
dove stanno quelli con più numeri
sono gli uomini di gomma
fanno straordinari
ma sono ordinari.

non mi piacciono gli uomini
in fabbrica sono melassa amara
lì trovi dietro ogni angolo
con le parole sfacciate del padrone
non mi piacciono perché hanno facce
deformi come quadri di Bacon
e quando sorridono vogliono toglierti il pane
e buttarti nella strada. quando si guarda
la strada dagli uffici dell’amministrazione
o dal laboratorio gli spifferi freddi
arrivano alle ossa che si sbriciolano.
la mia condanna è vederli all’opera
sapermi uno di loro. disamorato.

ho sniffato i vostri miasmi
troppo tempo. ruffiani bastardi
avete fatto del vino benzina
e dello zucchero carta moschicida.
ricorrenti cefalee imbrattano
le mie notti senza luna.
la gravità una regola contronatura.
sbatterete il muso sul sasso
il vero salasso d’una democrazia.

dovrei parlarvi di fiori
musiche celestiali
nei garage dei supermercati
col cemento sporco
e i murales confusi
come la generazione dei duemila
imbalsamate erezioni di niente
di uomini famosi
belle storie d’amore
e filantropi satanisti
potrei raccontarvi una barzelletta
una storiella umanitaria
con gente che viene a cercare
qualcosa che ha visto
ed è solo in televisione
puttanoni senz’arte
che raccontano favole economiche
per gente illusa e reclusa
dalle infami e criminali
zecche della politica.
potrei farvi credere di essere liberi
e di scegliere una merce
al posto di un’altra
con la confezione lussureggiante
ma uguale alla prima.
potrei erigervi un monumento
leccarvi i piedi e anche quella poltiglia
che dorme nel vostro cranio
antenna di multinazionale.
voi mi credereste?
io no. io non mi crederei
ma io sono un bastrado
che non si avvicina mai al prossimo
non crede al papa
diffida dello stato padre
e non ama i padroni.

i vecchi li hanno ammucchiati
in una città lontana dal mare
col freddo e la nebbia e la gente che non saluta
i vecchi li hanno voluti vicini i figli
avvocati e affermati col suv
premurosi perché ansiosi
la distanza è la catena della pena.
i vecchi però lì non ci vogliono stare
è freddo e non c’è il mare
si fa troppo presto a dire famiglia
a volte c’è così troppo amore.

lo stato padrone ha continuato
a predare. le pecore smarrite
sono stanche e depresse:
vorrebbero tornare alle loro feste
banchettando con ossa e nervi
a fior di pelle. ma non si torna
più ai fiori e alle tenerezze dell’odio
al terrore dei pianerottoli condominiali.
i frutti canditi sono sfranti. noi affranti.

sono amici perché sniffano
grammi di coca. si incontrano
coi nasi e pippano. sono amici
scaltri coi sentimenti e reticenti
sono regolarmente strafatti
nei fine settimana. hanno figli
e madri e padri. non sopportano
la vita. la vita è alla lunga
una lama tagliente, un’eco
strangolata. chi si taglia le vene
chi s’annebbia il cervello
chi schiaccia gatti per strada
chi pensa d’essere il padreterno.

il cazzo è il motore
dell’uomo maturo
il timone nel giovane
stella polare
o il cuore pulsante
eppure va a scemare
in una pisciata d’ordinanza.
e due palle mosce
increspate di rughe
peli bianchi arricciati.
l’inverno è una mischia
di fantasmi alati
volano mesti
nel chiaroscuro.
meccanica biologica
fossa d’un mistero
sin troppo calcolato.

notturno di botti
sconquassi a volte nella notte
tremano membra e vetri
ritorte e contorte
intestini e affini
rimembri ancor i sensi
sfiancati da pandoro e alloro
primo secondo e contorno?
l’anno nuovo allo sbando
quello vecchio perduto
per sempre. si spera:
l’illusione è la mia passione.

c’è il gatto nero in un latrato
ha preso le ali: è diventato alato
un pipistrello svalvolato errato
è un tesoro di mamma e papà
il papà non è ancora tornato
le stelle cadono a frotte nella notte
è un giorno che ha le ossa rotte
è un giorno che s’è addormentato
in un sorso d’acqua sul marciapiedi.