si può

si può scrivere con vanga
e cazzuola sui muri
e in strada e nei campi
con la terra molle di un temporale
evita la prima persona:
oggi tutto è guerra
il sangue sparirà
come la benevolenza
e le lamiere intoneranno
il frastuono della città.

uno e due

fine novembre è una sorta
d’armistizio: ho messo le ombre
nei mobili e versato serenità
sul pavimento. la casa è fatta
il bucato steso. faccio tutto.
cucino spolvero batto con forza
il minolo sugli angoli vivi. mi dice
che -a questo punto- potrei fare
senza lei. ma io non ballo da solo
è possiedo generosa forza
e l’un per cento di autolesionismo.
abbondo di pazienza radicale.
sbaglio in due. e sorrido. rido.

cielo

manchiamo ogni giorno
un’alba un tramonto.
cielo piccolo e invalido
scolpito da case brutte
tentate e distrutte
dov’è il cuore? dove è giunto
il timore di non essere
in quel momento preciso?
chi ti ridà quel sorso
una specie d’avvento?
la notte chiara e limpida
spazza incertezze e debolezze
è il sonno che grida
e accentua una vita.

gente

gente ammassata
come sardine la sera
sopravvissuta alla loro
stessa intolleranza e
continuità di potere.
ora leggeri come foglie
caduche d’alberi lontani
insetti d’alveare concesso.
s’arrovella ancora
il pensiero e non trova
bandolo -io sono vivente
argine o muraglia cinese
spartiacque e radice.
eppure la matassa lorda
sta lì come un elefante
in cristalleria. è monito
e capitolazione della critica.
e cosa hanno ottenuto
se non frattura e morte.

sciocchi

sciocchi giocate a far dio
con gli intrugli e i sotterfugi
all’arroganza e vessazione
non ci sono rifugi: tre anni
di follia e di quella follia
che si legge nei libri di storia
e quando si vede un film
s’è sempre dalla parte nota
la scheggia impazzita
la singolarità mai immota.
invece la maggioranza
sceglie sempre il potere
non dire mai al contadino
quando è buono il formaggio
con le pere.

mattina infinita

com’è grigia la mattina
senza un’anima pia
a far da stagione
ed è questo vestito

un pastrano gigante
peso sullo stomaco
eremo di vuoto
vuoto a perdere

estro incapsulato
anni e anni
di non partecipazione
a far gossip: ecco

la nazione in estinzione
ed ogni corpo
sostituito dal predatore
sempre là in alto

attento nella finzione
più scaltro? no no
siamo noi tutti
ad essere sbagliati.

come intrappolati.
nel filo dato
nel quadro stinto
nel fato sfatato.

suoni

il suono precario nella città sveglia
il collaudo delle auto con le luci infinite
il martoriato animo che osserva e nasconde
la malinconia sotto gli zerbini sudici.
i pettirosso raccoglie le provviste
tutte le creature si preparano per l’inverno
solo l’uomo è indifferente forse perché
non è realmente di questo mondo
qualcuno l’ha disegnato svogliatamente
la periferia è inguardabile e non rassicura
forse il ritirarsi nel bosco dura -ma non ho
abbastanza soldi per fare l’eremita
la lettura mi disturba e qualcosa scrivo
scrivo per me e pochi altri -non sono mica
un divo! accetto critiche che non mi siano
rivolte. amavo la rivoluzione ma poi vi guardo
in faccia e torno ad ascoltare Mozart
rattoppo muri e pavimenti. scrivo ancora
e metto un vinile di Bill Evans. arriva la notte
in sella a queste note -m’addormento
il giorno è estasi ed un tormento.

in fondo

gli ultimi figli
sotto ai portici -rigidi
vicini ai condizionatori
con le coperte spesse
i cani rannicchiati
fedeli riscaldano.
sfrecciano auto
sino a notte fonda
li osservano irati
si fa coi pidocchi.
faticano a dormire
sulla fredda pietra
come un’anatomia di guerra:
si sezionano i corpi
sotto colpi indifferenti
non ammette debolezza
la società del successo
non s’ammette la caduta
sin quando non si tocca terra.

dolce totalitarismo

ci sono dottori e dottori
un tempo venivano a casa
erano umani. Céline fu anima
e carne sicuramente. si scambiavano
quattro chiacchiere e un bicchier
di vino. ti confidavi come in chiesa
adesso invece burocrati
freddi ed implacabili:
ti scavano in anticipo la fossa
eppure eseguono ordini
come nazisti. non fiatano.
sono stato e camicia
firmano. protocolli rigidi
certificano e fanno iniezioni:
tot euro a botta e gli straordinari pure
-come privati senza attese e file
son professionisti: guadagnano più volte
i soldati della nuova religione
e che vedono allo specchio
loro solo sanno. ed io.

districarsi tra carcere
e irta riabilitazione
io nessuno e centomila
tutti in uno e qualcuno
in più: come un nodo latente
oltre al normale filato.
in nome del sole
delle sue perturbazioni.

al macero

che ne sanno della vita
ingegneri capetti e padroni
ore e ore da ricchi buttate
al comando. ecco ciò che inebria
veramente: il potere di vita e morte
in una società di finto progresso
e ipocrita premura. ed ora et labora
e salta la fila ed una bella eutanasia
premio persino al depresso
che non sa più chi sia.

vita moderna

siamo vivi per procura
sino all’ora di punta
poi si ricomincia a vivere
lontani dai riflettori
del magro salario
un’ora per riposarsi
un’ora per mangiare
otto per dormire a tratti
poi ci sono l’inflazione
e l’arroganza del potere
cieco mostro burocratico.
multe tasse e e vessazioni
l’uomo d’oggi è questo sacrario
d’impotenza e rassegnazione.
l’estinzione giungerà
con la sostituzione di stato.
tutto correlato tutto dimenticato.

pochi

pochi amici sopravvivono al sole
al ghiaccio alla specie al rosicchiare
mancano gli anni uno ad uno
simpatici inganni da lettore o scrittore
più il primo: comparse e fantasmi
come nei vecchi colossal. ma questo
è un intimista presa per i fondelli
e padroni e arroganti premono
ogni giorno sul foglio -esigono
una scrittura di prodotto finito
non la figura intera ma il possesso
come l’oggetto d’una filiera.
ed io nella solitudine m’inzuppo
come al mattino all’alba il freddo
di un novembre immaturo. così
mi conosco e ne abbandono parti
poco alla volta -nella sabbia alta.

silenzio

la periferia è spoglia
come una caduta d’intonaco
da una parete di condominio
la periferia è morta scagliata
su africani e vecchi e asiatici
come una bottiglia d’acido
per assetati -odio e amore.
alle dieci alla signora Lucia
le sono entrati in casa
con giacche e cravatte
e un bell’aspetto da venditori.
le han fottuto la pensione
totale 500 euro per il gas
luce un piatto di pasta.
vivono così nel silenzio
le brave persone.

abbandonala

lasciala ai colti ai cesellatori
d’aria fritta, la poesia. scuoti
i rami sedotti dalla noia
e dalla perfidia dei simili
ridotti a depensanti robot
nelle scatole del potere.
lasciala ai cani e alle puttane
immergiti nelle ventiquattro ore
della cloaca televisiva -rumore
di sottofondo che tutto tace.
lasciala ai congelatori d’emozioni
ai burocrati di stato e ai ricchi
che sanguinano soltanto
nei riflessi dei poveri salariati
qualche operaio sopravvissuto
un manovale un senzatetto.
abbandonala ai cervelli fritti
ai sommozzatori filologi
ai baroni universitari
sempre sedotti dal conforme
conservatori di ninnoli
i ricchi di stato. lascia alfine
la poesia alla muffa
del fatiscente declino
occidente sdentato e ipocrita.
lascia la poesia all’intestino
ai suoi sommovimenti
flatulenze e gorgoglii.
abbandonala per sempre
e che sia provvidenza poi
somma e inoperabile.

non t’ho chiesto

non t’ho mica chiesto d’amarmi
né di sembrare felice
neppure d’avere appetito
indicando non la luna
ma il dito. scusa se ho
qualche idea chiara
una consapevolezza strana
che m’avvolge. t’assicuro
è solo per un attimo
di luce -lo strazio
mattutino del risveglio
il dovere miete tante vittime.
ed io vorrei una volta
non essere preda.
così riluce il mattino
quando sono padrone di me.

operaio e giorno di sale

l’operaio il giorno di sole
pensa alla pressa che schiaccia
al tornio che intacca
guarda su guarda su
e vede polvere e gas
nuvole e nuvole
odora l’olio e schiuma d’emulsione
vede il sole della fusione
la luce violenta dei neon
il carico delle ore
il sudore è il suo fiume
malattia del salario
è incazzato l’operaio
giovane e vecchio
s’osservano uno di fronte all’altro
e non si capiscono
di mezzo c’è un vetro
e una fiamma fredda
pagine ingiallite
il piede di porco
il tavolo impolverato
un tempo c’è stato
un collegamento
ora c’è una frattura
come in natura
quando si separano e svaniscono nel rumore
le cose implose
il giovane brandisce la chiave inglese
ricomincia da capo
il vecchio se ne torna casa.
domani è un giorno d’inverno
potrebbe non accendersi la luce
potrebbe essere necessario
non muoversi da casa.

sos

anche io sono a volte
come te sulla tua piattaforma
lontana dalla costa
un filo sottile:
un giorno è teso
un giorno pende
come un frutto sfranto
l’albero pare remoto
lasciatemi essere fragile
lasciatemi vivo quanto
una crepa una frattura
uno strano arrossamento
la terra poi si chiude
in un sorriso che indosso
come un bel vestito di fiori.